Quel senso di avventura

John O’Sullivan era in piedi a bordo campo a guardare la partita di calcio di sua figlia di sei anni. Una massa di piccole giocatrici che si muovevano su e giù per il campo senza logica, errori su errori, ma tonnellate di divertimento. A nessuno importava del risultato, era tutto fantastico. Accanto si svolgeva una partita maschile di Under 10. Il clima era completamente differente. Un bambino sbagliò un passaggio, la sua squadra prese gol. L’allenatore e tutti i genitori si scagliarono contro di lui. Il bambino venne sostituito.

John O’Sullivan, quel giorno, decise di avviare “Changing the game”, un progetto planetario di educazione sportiva rivolta ad allenatori e genitori. Oggi lo sport giovanile non appartiene più ai bambini. La violazione della loro intimità è fuori controllo. Allenatori e genitori competono tra di loro attraverso gli allievi e i figli. Obiettivo del programma è restituire lo sport ai ragazzi.

La maggior parte delle persone non ha alcuna idea del perché iscrivono i loro bambini a fare sport. Tutti i genitori dicono di volere che i loro figli imparino i valori che lo sport dovrebbe insegnare, ma poi sono pronti a quasi tutto in cambio di una “vittoria” personale. Pensano che questo non incida negli altri aspetti della vita del loro bambino, ma lo fa. Oggi nello sport giovanile i ¾ dei ragazzi smette prima dei 13 anni perché non si diverte, perché è stanco di essere sgridato, o perché si siede troppo spesso in panchina a causa dell’eccessiva enfasi data al risultato.

 Uno dei principali scienziati dello sport nel mondo, Joe Baker, dice che i bambini hanno bisogno di 3 cose per avere successo come atleti: autonomia, divertimento e motivazione. Quando i bambini si divertono e imparano, hanno tutte queste cose. I bravi allenatori insegnano rendendo piacevole l’allenamento. Basta parlare a qualsiasi atleta professionista per sentirsi dire che il meglio lo esprimono quando si divertono, perché riescono a fuggire dalla pressione.

Un sondaggio, durato tre decenni, tra giovani atleti negli Stati Uniti, avviato dagli educatori Bruce Brown e Rob Miller, ha voluto porre l’attenzione su un aspetto particolare. E’ stato chiesto loro, infatti, quale fosse il peggior momento nella loro esperienza sportiva. La risposta fu sconvolgente: “Il ritorno a casa dopo la partita con i genitori.” Contestualmente chiesero quale fosse invece il complimento che avrebbero voluto ricevere dai loro genitori. Ne uscì una formuletta magica di sei parole: “I love to watch you play” (Mi piace vederti giocare).

Nei momenti dopo una partita, i bambini desiderano distanza. Devono compiere una rapida transizione da atleta a bambino, e preferirebbero che anche i genitori si convertissero da spettatori – o, in molti casi, da allenatori – a mamma e papà nel più breve tempo possibile. Gli adulti devono accontentarsi del privilegio di poter assistere, e lasciare le cose come stanno. Lo sport è uno dei modi migliori per imparare a prendere rischi e affrontare il fallimento, perché le conseguenze non sono mai fatali. I ragazzi non vogliono o non hanno bisogno di un genitore che li salvi quando qualcosa va storto, devono poter vivere lo sport con senso di avventura. L’impossibilità di sbagliare toglie loro il diritto di imparare.

L’elemento sportivo

L’8 aprile del 1962, prima di un concerto della New York Philharmonic Orchestra, Leonard Bernstein, salito sul podio, dopo aver atteso che Glenn Gould si sistemasse al pianoforte, si girò improvvisamente verso il pubblico, cui rivolse un breve quanto disarmante discorso:

“Cari amici della Filarmonica, tra poco ascolterete un’ interpretazione, del Concerto in re minore di Brahms, diversa da tutte quelle che fino ad oggi ho potuto ascoltare e comunque da tutto quel che avevo potuto immaginare. Non posso dire di essere del tutto d’accordo con la concezione di Gould, ed ecco quindi che si pone una interessante domanda: perché malgrado tutto ho accettato di dirigere questo concerto? […] Se l’ho fatto è perché nella musica esiste quel che Dimitri Mitropoulos chiamava «l’elemento sportivo», la curiosità, l’avventura, la sperimentazione. Vi posso garantire che collaborare con Gould nel corso di questa settimana è stata una vera e propria avventura. Ed è con questo stato d’animo che ora lo presenteremo.”

La grandezza nell’arte, come nello sport, si manifesta nel coraggio. Chi fa sport prima o poi, che lo voglia o meno, proverà l’esperienza di essere posto di fronte ad un ostacolo che, almeno inizialmente, non si sa affrontare. Quell’ostacolo si chiama limite, e può essere rappresentato da un gesto tecnico, un avversario o il proprio vissuto. Lo sport insegna a gestire sé stessi dinanzi al limite, accettare la sfida e non cedere alla paura. Il coraggio ci prende per mano, e ci indica la via, senza preoccuparsi delle cose che non abbiamo o che non sappiamo.

C’è un segreto, un non detto, in tutte le cose. Un qualcosa nascosto che attiva l’immaginazione. Il coraggio permette di superare infiniti ostacoli fino a colmare la distanza tra ciò che vediamo e ciò che sogniamo del mondo, tramutando l’immaginazione in realtà. Lo sport dovrebbe educare al coraggio: non tanto vedere per credere ma credere per vedere, solo allora il nostro destino prende forma. Il coraggio oltrepassa la paura, e ci spinge sull’orlo del precipizio, a cogliere i sogni, mai realizzati e mai dimenticati.

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