Il talento della sconfitta

Gillian Lynne nasce a Londra nel 1926. A 8 anni gli insegnanti della scuola che frequenta scrivono ai genitori: “Crediamo che Gillian abbia problemi di apprendimento”. Non è capace di concentrarsi, diventa nervosa, non sta mai ferma. Oggi direbbero che è affetta da ADHD – Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività. E’ una bambina senza speranza.

La madre si convince a portare sua figlia da uno specialista e, a breve, si ritrova con la bambina nello studio di uno psicologo. La donna illustra i problemi della piccola e attende la diagnosi. L’uomo, di contro, si rivolge direttamente a Gillian: “Puoi aspettarci qui? Io e la mamma dobbiamo parlare in privato.” I due si alzano e fanno per uscire, quando l’uomo torna indietro e mette su un disco, facendolo suonare. Poi esce dalla stanza, insieme alla donna, e lascia la porta socchiusa per osservare. Neanche un minuto, e Gillian si alza dalla sedia ed inizia a muoversi a tempo di musica. Puntuale arriva la diagnosi: “Sua figlia non è malata. E’ una ballerina. La porti ad una scuola di danza.”

La donna il giorno seguente, iscrive sua figlia a un corso di danza. Gillian da quel momento non smetterà più di ballare. Anni dopo riuscirà ad entrare alla Royal Ballet School, diventerà una ballerina solista al Royal Ballet ma soprattutto firmerà la coreografia delle due più importanti produzioni di teatro musicale della storia: “Cats” e “The Phantom of the Opera”. 

Gillian Lynne ha portato sollievo e gioia a milioni di persone nel mondo; è considerata una delle persone più influenti nella storia del ballo e oggi, quasi novantenne, ricorda con queste parole il primo giorno in quella scuola di danza: “Sono arrivata lì ed era fantastico. Era piena di gente come me. Gente incapace di stare ferma. Gente che si doveva muovere per pensare”.

Tutti nasciamo con la predisposizione ad una certa attività, ma il talento in sé non ha praticamente alcun significato; è l’investimento su di esso che ne sprigiona il valore. La componente genetica del talento è importante tanto quanto l’ambiente, che non solo influenza il nostro destino, ma stimola direttamente i nostri geni. Il talento è solamente un grande vantaggio iniziale per inventarsi il proprio mondo.

Il talento del debuttante

Uno studio pubblicato nel 1993 dallo psicologo Anders Ericsson mette a confronto il tempo impiegato da un gruppo di violinisti dell’Accademia Musicale di Berlino ad esercitarsi: i migliori si sono addestrati in media per diecimila ore, gli altri per quattromila. I ricercatori non trovarono un solo musicista che avesse raggiunto l’eccellenza impiegando meno tempo dei colleghi di pari livello; né trovarono chi, privo del talento necessario a primeggiare, si fosse esercitato più degli altri compagni. Lo studio lancia un messaggio netto: “Il talento da solo non conta, solo l’esercizio ci fa emergere. Ma se non hai sufficiente predisposizione sarà molto probabile che ti eserciterai meno degli altri.”

Tutti noi tendiamo a fare ciò che ci riesce meglio. Il talento è ripetitivo e la pratica trasforma i difetti in una sfida di volontà. Non deve trattarsi di puro esercizio, ma di una pratica focalizzata sull’estendere le capacità oltre i propri limiti. La capacità di apprendere non si esaurisce, l’unico freno è la paura di sbagliare. Al contrario dei bambini, che accettano di compiere errori, gli adulti sono molto meno onesti con sé stessi. L’esperienza è una grande risorsa, ma il rischio è quello di accontentarsi. Così, per non paralizzare il talento in ciò che già sa, bisogna prendersi nuovi rischi e tornare a essere “debuttanti”.

L’arte di fallire

E’ il 1996, il giorno finale del Masters Golf Tournament, uno dei quattro Major del circuito golfistico. L’unico Major che si gioca sempre nello stesso campo ad Augusta in Georgia, USA. Vincerlo, anche solo per una volta, oltre al diritto di poterlo giocare per tutta la vita, equivale ad entrare nella storia del Golf. A nove buche dal termine due dei più grandi golfisti di ogni epoca si giocano il titolo. Greg Norman, lo Squalo Bianco australiano, ha 6 colpi di vantaggio sul monumento britannico Nick Faldo, anzi Sir Nick Faldo per volontà di Sua Maestà. Nulla sembra poter impedire al Grande Squalo Bianco di indossare per la prima volta nella sua carriera la Giacca Verde del vincitore a fine giornata.

Davanti al green della nona buca ad Augusta c’è un ripido pendio. Greg Norman è sulla palla, è un tiro facile: l’unica cosa da evitare è rimanere corti. Prepara il colpo, slancia la mazza, colpisce e poi rimane immobile a guardare. Il tiro è corto, la pallina rotola all’indietro per oltre trenta metri. Qualcosa dentro di lui si rompe. I suoi movimenti iniziano ad essere impacciati come un principiante alle prime armi. Inanella una serie di errori clamorosi, colleziona tre bogey consecutivi e consegna il Masters a Faldo che vince con 5 colpi di vantaggio. Nick Faldo, capendo che ciò che aveva conquistato era meno di una vittoria e ciò che Norman aveva subito era più di una sconfitta, dopo l’ultimo colpo si avvicina al rivale, lo abbraccia e gli sussurra: “Non so cosa dire. Mi sento malissimo. Mi dispiace tanto.” I due, abbracciati, finiscono col piangere insieme.

Chi conosce il Golf, ma a questo punto anche chi non lo conosce, capisce di aver assistito ad un drammatico crollo nervoso che ha dato vita a una delle più agonizzanti sconfitte nella storia dello Sport. C’è molto da imparare dai modi in cui persone di grande talento a volte falliscono, clamorosamente falliscono. Malcolm Gladwell nel libro Outliers approfondisce molto bene l’arte del fallire.

Innanzitutto ci sono due sistemi di apprendimento ben distinti: ci sono un apprendimento esplicito ed uno implicito; nel primo siamo concentrati su ciò che dobbiamo eseguire; il secondo invece è un apprendimento che ha luogo al di fuori della consapevolezza, è qualcosa che avviene gradualmente fino al punto in cui non pensi più a cosa fai, ma agisci in modo naturale.

In condizioni di stress tuttavia, a volte, prende il sopravvento il sistema esplicito. Greg Norman si bloccò perché cominciò a pensare troppo perdendo fluidità e sensibilità. Era tornato a giocare come un principiante perché si affidava al sistema che usava quando era un principiante. Il blocco, al contrario del panico, ha a che vedere con il pensare troppo. Conduce ad un fallimento paradossale: più ti concentri e pensi, più sbagli.

Claude Steele, psicologo della Stanford University, arrivò al cuore di ciò che vi è di tanto strano nel blocco. I pregiudizi influenzano significativamente i comportamenti e quando rimaniamo intrappolati in uno stereotipo negativo la pressione compromette la prestazione. Greg Norman in quella situazione rappresentava lo stereotipo del perdente: non aveva mai vinto il Masters, aveva concluso al secondo posto nel 1986, con un bogey all’ultima buca contro Jack Nicklaus; e anche l’anno dopo fu battuto sempre allo spareggio da Larry Mize. Era un torneo stregato per lui, e i demoni si sono presentati puntuali proprio nel momento critico.

Il blocco è una parte centrale del dramma nella competizione sportiva e la capacità di superare la pressione è parte di ciò che significa essere un campione. Lo sport è fatto di uomini e donne che affrontano infinite sfide, e la maggior parte di esse hanno a che vedere con la fragilità dell’essere umano. Il codice binario dello sport tende a dividere il mondo in vincenti e perdenti, ma l’emozione è altrove.

La quasi vittoria

I cinesi lo chiamano Qomolangma, i nepalesi Sagaramatha: ‘madre dell’universo’ per i primi, ‘dio del cielo’ per i secondi. Per noi è semplicemente il Monte Everest in nome del geografo gallese Sir George Everest. La cima più alta del mondo, con i suoi 8848 metri, ha qualcosa di ultraterreno nella sua imponenza che sembra voler tenere gli uomini a distanza.

George Herbert Leigh Mallory l’8 giugno 1924, con il compagno di scalata Andrew “Sandy” Irvine, lascia la propria tenda sulla parete nord dell’Everest e comincia il tentativo di ascensione all’ultimo tratto della vetta più alta del mondo. Alle 12.50, sono avvistati a circa 240 metri dalla cima a ridosso del “second step” (secondo gradino), il punto chiave dell’ascensione a 8610 metri, per poi sparire tra le nuvole per sempre. Non vi è certezza se i due scalatori abbiano o meno raggiunto la vetta della cima più alta del mondo 29 anni prima di Edmund Hillary e dello sherpa Tenzing Norgay. Il ritrovamento del corpo di Mallory nel 1999 non ha risolto quello che rimane il principale mistero della storia dell’alpinismo.

“Che senso ha scalare una montagna?
Ciò che conta è sapere di aver compiuto qualcosa di soddisfacente.
Che non esistono sogni che non valgano la pena di essere sognati.
Non è sconfiggere un nemico ma conquistare noi stessi.
Lottare e capire – una cosa non è possibile senza l’altra;
questa è la vita.”

– George Herbert Leigh Mallory –

Comunque sia andata, la loro scalata rimane una grande impresa: il puro piacere di aprire una via, di avvicinarsi a ciò che sta oltre l’orizzonte, il divario tra dove sei e dove vuoi arrivare. Lo sport non è solo devozione al risultato. Non è l’arrivare ma l’avvicinarsi. E’ la “quasi vittoria” che porta a riprovarci. Avere un vuoto da colmare ci dona la caparbia volontà di tener duro, anche se avresti voglia di fare altro. La vittoria finale è una lunga marcia con un numero infinito di passi intermedi, di allenamenti, di gare piccole piccole, qualche volta vinte e spesso perse.

Nella cultura navajo, gli artigiani lasciano intenzionalmente delle imperfezioni inserendo nelle loro creazioni un difetto voluto che chiamano “Linea dello spirito”. L’imperfezione intende lasciare allo spirito una via di fuga, una ragione per continuare a creare senza rimanere intrappolati nella gabbia della perfezione. Arrivare vicini a ciò che si credeva di volere ci aiuta ad ottenere più di quanto sognavamo di potere. Se accettassimo l’idea che mentre lavoriamo all’opera, lavoriamo anche su noi stessi, saremmo meno paralizzati di fronte alla tirannia del risultato.

La partita perfetta

David Dunning e Justin Kruger sono due psicologi della Cornell University che nel 1999, dopo una lunga serie di studi, definirono il cosiddetto «effetto di Dunning-Kruger»: “Più uno è incompetente, più crede di saperne. Al punto da non rendersi conto di non saperne affatto”. Gli incompetenti partono con una idea preconcetta sul proprio grado di preparazione e tendono a cercare conferme – in realtà inesistenti – nei risultati. Ma, dicono sempre Dunning e Kruger, se uno comincia ad approfondire, se prova sul serio a cimentarsi in un’attività, finisce per rivedere le proprie valutazioni iniziali, diventa più critico verso se stesso mettendosi in discussione.

Maggiore è la nostra conoscenza, più chiaramente possiamo capire che non conosciamo tutto ciò che credevamo di sapere. Più conosci, e più capisci quanto poco tu sappia. Diventare bravi è sapere che non esiste una conclusione, è contemplare l’errore come parte essenziale del processo. La profonda sensazione di essere sempre nel giusto non è una guida affidabile per tutto ciò che ci accade nel mondo. Il successo è un attimo, ma poi il mondo gira in un’altra direzione e ci sorprende.

Il problema è che accettiamo di sbagliare solo in astratto, ma sarebbe meglio porsi la questione in prima persona. Nella dittatura del risultato sbagliarsi su qualcosa coincide con l’essere sbagliati, come perdere coincide con l’essere perdenti. Ma la sconfitta non è altro che una storia di speranza e di perdita, di nostalgia e di rinascita. In altre parole una grande storia d’amore. E’ così nello sport. E’ così in tutto.

La partita perfetta: perdere per ricominciare.

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